Basilica di Santa Giustina, Padova

L’imponente chiesa dalla severa facciata incompiuta, che ci accoglie oggi nello splendore e grandiosità della sua realizzazione cinquecentesca, ha alle spalle una lunga storia. Il luogo in cui sorge, infatti, era in epoca romana una necropoli dapprima pagana e poi cristiana. Qui fu sepolta Giustina, caduta sotto i colpi della persecuzione di Diocleziano il 7 ottobre 304. E sulla sua tomba, con tutta probabilità subito dopo l’editto con cui Costantino nel 313 concedeva ai cristiani la libertà di praticare la loro religione, i padovani eressero una “cella memoriae”.

Fu poi il patrizio Opilione, prefetto del pretorio verso la fine del terzo decennio del VI secolo dopo Cristo, a ricostruire dalle fondamenta la prima cappella sepolcrale paleocristiana e abbellirla di marmi e mosaici, facendone una basilica degna della venerazione che la città aveva per la santa martire. Accanto a essa fece erigere un oratorio, dedicato a Santa Maria, di cui purtroppo, dopo il terremoto del 1117, resta ben poco. del suo splendore rimane però memoria nella Leggenda di san Daniele (sec. XI-XII): «Le pareti, da terra e tutt’intorno sono rivestite da specchiature di marmi variati, mentre la parte superiore, coperta da cupola, in lungo e in largo risplende per i suoi fondi d’oro e per le figurazioni musive che rappresentano il palazzo celeste e i verdi prati del paradiso». La cosiddetta basilica opilioniana, insomma, per architettura e decorazione offriva il meglio dell’arte bizantina, con ascendenze al mausoleo di Galla Placidia e comparazioni con la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli.

Dei mosaici, che dovevano avere un’incredibile gamma di colori, disegno delicato e materia preziosa, oggi si conservano pallide testimonianze nel sottarco della finestra aperta nella parete meridionale dell’oratorio e nel pavimento della zona esterna alla parete settentrionale del piccolo edificio. Infine, un mosaico di epoca paleocristiana, caratterizzato da un disegno fortemente geometrizzato, con linee circolari ricorrenti, di svariati colori tra cui bianco, rosso, nero e ocra, rimane nel corridoio presso il Pozzo dei martiri.

Nel tempo, però, la basilica ha saputo arricchirsi di altri tesori preziosi per la fede: il corpo di san Prosdocimo, primo vescovo di Padova, dell’apostolo Mattia, dell’evangelista Luca, e ancora le reliquie dei Santi Innocenti, Daniele, Giuliano, Arnaldo, Massimo, Felicita e Urio, che hanno fatto di questa chiesa una meta continua di pellegrinaggi.

Distrutta dal terremoto del 1117, la basilica fu subito ricostruita dai monaci benedettini (a cui il vescovo di Padova l’aveva affidata intorno al 740 e riconfermata nel 970). I lavori si conclusero verso la metà del XII secolo e nel 1190 venne realizzato un grandioso portale romanico-gotico, istoriato secondo il tema della redenzione, di cui rimangono alcuni pezzi: due grifoni, la lunetta, l’architrave, due pilastri, parte delle ghiere e altri frammenti riavvicinati negli spazi adiacenti alla sacrestia.

Cresciuta la comunità benedettina, divenuta nel corso del Quattrocento fervido centro di un monachesimo riformato sotto la guida dell’abate Ludovico Barbo (1408-1437), la chiesa romanica divenne troppo piccola e fu costruita l’attuale basilica. Iniziata nel 1521, venne consacrata il 14 marzo 1606.

Costruire un tempio adeguato al momento di splendore che la comunità benedettina stava vivendo e, all’interno di questo, inglobare le parti più antiche e care alla devozione del precedente edificio. Queste le esigenze che i monaci si trovarono a dover conciliare nella basilica cinquecentesca. Il risultato lo abbiamo davanti agli occhi: è l’interno imponente e luminoso, è la solenne magnificenza di cui è improntato tutto il corredo decorativo e funzionale, in perfetta linea con la sensibilità didascalico-devozionale di matrice controriformistica che caratterizza la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento e per cui furono chiamate maestranze e artisti qualificati in epoca barocca.

A Paolo Veronese i benedettini affidarono l’esecuzione della pala dell’altare maggiore (dove è conservato il corpo di santa Giustina) raffigurante il Martirio di santa Giustina. La serie di pale degli altari laterali comprende dipinti della tradizione tardo-cinquecentesca veneziana e veneta, fra cui spiccano i nomi di Palma il Giovane, Pietro Damini, Claudio Ridolfi, Giambattista Maganza il Giovane, Pietro Liberi, Carlo Loth. Non mancano poi opere di pittori seicenteschi e fra tutti è da ricordare Sebastiano Ricci, che alle soglie del Settecento ritrasse san Gregorio Magno e concluse la decorazione pittorica della basilica con gli affreschi della volta della cappella del Santissimo Sacramento che, con i loro colori freschi e intensi e la preziosità formale, preannunciano l’imminente avvento del rococò.

La realizzazione degli altari (che costituiscono il più grande complesso scultoreo seicentesco realizzato nel Veneto dopo quello della basilica della Salute a Venezia) fu affidata agli esponenti più significativi della scultura barocca veneziana e culmina nel capolavoro di Filippo Parodi: l’altare della Pietà, terminato nel 1689. Il coro ligneo, infine, fu intagliato alla metà del Cinquecento dal normanno Riccardo Taurino su programma iconografico di Eutizio Cordes, monaco e teologo fiammingo che partecipò al concilio di Trento e a Santa Giustina volle rappresentare il tema della salvezza in chiave agostiniana, commentandola in parallelismo tra antico e nuovo testamento.

Nel complesso basilicale, come piccoli gioielli, sono incastonati i segni più antichi della fede. Dietro l’urna di san Mattia, nel braccio destro della crociera, si apre il corridoio dei martiri (al centro c’è il Pozzo dei martiri, dove nei secoli XII-XIII furono rinvenuti, appunto, resti di martiri). Esso porta al sacello di san Prosdocimo, l’oratorio paleocristiano fatto costruire da Opilione nel VI secolo. Il timpano, ricco di simbologia allusiva alla salvezza, è una delle testimonianze più importanti del primo cristianesimo a Padova. Altri elementi significativi sono il pluteo, decorato con tralci di vite e pavoncelle, e la “pergula”, con l’iscrizione sull’architrave a ricordare che nel luogo si trovano le reliquie dei santi apostoli e di alcuni martiri. Sulla destra, entrando, è collocato il sepolcro di san Prosdocimo, sovrastato da un clipeo in marmo che raffigura il primo vescovo di Padova in un atteggiamento di ieratica contemplazione esprimendo, nell’assenza di qualsiasi definizione volumetrica, un concetto di bellezza tutta dello spirito.

È un deserto in mezzo alla città il monastero di Santa Giustina. Ma non è un deserto che fa il vuoto attorno a sé, allontanando il mondo. È invece un’oasi di silenzio e di pace, dove si infrangono l’agitazione e le preoccupazioni per le cose terrene, si crea un clima di riflessione e di contemplazione in cui l’uomo rientra in se stesso e raggiunge l’esperienza di Dio.

Entro le mura del monastero non è solo la preghiera a farsi dono per il mondo ma anche il lavoro, sia manuale sia intellettuale, che i monaci compiono e che è vissuto e offerto come un servizio, una risposta ai bisogni concreti sia della comunità monastica che del mondo esterno.

E per rendere concreta la testimonianza di solidarietà, le porte del monastero sono aperte a chiunque voglia fare un’esperienza di raccoglimento e spiritualità. 

I monaci offrono infatti accoglienza ospitale a chi voglia condividere per qualche giorno la loro vita e la loro preghiera. L’isolamento materiale dal contesto cittadino e dalla realtà sociale, dunque, non preclude, ma anzi favorisce e sostanzia questa profonda disponibilità alla condivisione e alla solidarietà.

O martire Giustina
tu che con coraggio affrontasti e respingesti
le minacce e le lusinghe dei nemici di Dio
e conservasti la tua verginità
sostenendo eroicamente il martirio,
ottienici dal Signore quella fortezza cristiana
che ci consenta di vincere le nostre debolezze
e ci porti a vivere con purezza di cuore
e con amore generoso
per essere ammessi con te in paradiso
a lodare e ringraziare Dio eternamente.

Amen.

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